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Chapter 1 - PROLOGO

Ogni essere vivente, ha il diritto di vivere e morire alle proprie condizioni, senza che qualcun altro decida per lui in quanto tutti siamo uguali e in potenza capaci di agire per noi stessi. Eppure, questo che dovrebbe essere il fondamento del mondo moderno nato dopo innumerevoli tragedie, sembra solo una maschera sotto la quale il centro della crudeltà dell'uomo sono gli altri uomini.

E lui lo sapeva bene, era nato diverso, con una mutazione o, meglio, geneticamente perfetto. Perfetto è il termine che usano, nato con alcuna imperfezione genetica, morfologica o neurologica di alcun tipo era l'epitome del potenziale umano. Sentì dire una volta che era stato scoperto dopo che in una clinica privata era stato fatto un test genetico che mostrava la sua anomalia perfetta, da allora i suoi genitori erano stati uccisi e lui divenuto un'arma… o meglio, l'arma 0.

Tredici anni. Era passato tutto quel tempo da quando aveva memoria cosciente, in questo labirinto di corridoi bianchi e luci fluorescenti che non si spegnevano mai. La Struttura—così la chiamavano, come se dare un nome generico a un inferno lo rendesse meno mostruoso—si ergeva da qualche parte nel mondo, nascosta, sepolta, irraggiungibile. Non c'erano finestre. Non c'era cielo. Solo pareti di cemento rinforzato e acciaio, scanner biometrici a ogni angolo, e il costante ronzio dei sistemi di ventilazione che pompavano aria riciclata nei polmoni.

La sua cella—tre metri per tre metri, una branda imbullonata al muro, un lavabo, un water, nient'altro—era identica a tutte le altre celle del Livello 4, dove tenevano i "progetti prioritari". L'avevano trasferito lì quando aveva compiuto otto anni, dopo che aveva superato la Prima Valutazione Completa con punteggi che, a quanto aveva sentito mormorare tra i tecnici, erano "statisticamente impossibili per un soggetto della sua età".

Geneticamente perfetto. Le parole gli risuonavano in testa ogni mattina quando si svegliava al suono dell'allarme alle 05:00 precise. Perfetto equilibrio muscolare. Perfetta acuità sensoriale. Perfetta plasticità neuronale. Perfetta capacità di guarigione—non rigenerazione, quella era fantascienza, ma il suo corpo chiudeva ferite, riparava ossa, metabolizzava tossine a velocità che superavano di quattro volte la norma umana.

Ma cos'era la perfezione se non un'altra forma di gabbia? Un altro modo per dire: tu non appartieni a te stesso, appartieni al tuo potenziale, e noi lo possiederemo.

Il ponte di osservazione dominava la sala d'addestramento come un occhio di vetro blindato. Lui non aveva bisogno di guardare in alto per sapere chi c'era lassù. Dottoressa Volkov, la direttrice scientifica, con i suoi capelli grigi raccolti in uno chignon impeccabile e gli occhi freddi da chirurgo. Dottor Zhang, specialista in condizionamento psicologico, sempre con quella espressione vagamente annoiata, come se stesse osservando topi in un labirinto. E Kravchenko.

Sempre Kravchenko.

L'istruttore capo era un uomo massiccio, ex Spetsnaz, con cicatrici che gli attraversavano il collo e sparivano sotto il colletto della divisa nera. La sua presenza era una costante opprimente, un'ombra che si allungava su ogni momento della giornata. Voce gutturale, accento slavo marcato, mani grandi come pale che potevano spezzare ossa con la stessa facilità con cui altri stringevano una mano.

– Arma 0, posizione di partenza – la voce di Volkov gracchiò dall'altoparlante, metallica e distorta.

Si posizionò al centro del tatami, piedi alla larghezza delle spalle, mani lungo i fianchi, respiro controllato. La sala era un cubo perfetto di quindici metri per lato, pareti imbottite di materiale assorbente, pavimento ricoperto da tatami militari grigi. Luci al neon incassate nel soffitto. Nessuna ombra. Nessun nascondiglio.

Di fronte a lui, a dieci metri di distanza, c'era Progetto Sigma.

Non conosceva il suo vero nome—se mai ne aveva avuto uno. Era solo Sigma, il soggetto con cui lo facevano combattere tre volte a settimana, ogni mercoledì, venerdì e sabato, per "valutazione comparativa delle performance". Sigma aveva sedici anni, due in più di lui, era più alto di una decina di centimetri, più pesante di una ventina di chili, tutto muscoli e tessuto connettivo rinforzato attraverso un regime di steroidi sperimentali che gli davano quella massa innaturale.

I loro occhi si incontrarono. Quelli di Sigma erano vuoti, spenti, come se dietro non ci fosse più nessuno che guardava. Solo un meccanismo che rispondeva a stimoli. Lo avevano rotto, tempo fa, durante una delle "sessioni di correzione comportamentale" dopo che aveva osato piangere durante un'esecuzione simulata.

Quanto tempo prima che rompano anche me? Il pensiero arrivò e se ne andò, una scheggia di ghiaccio nella mente.

Il cicalino suonò.

Sigma scattò in avanti, massiccio ma sorprendentemente veloce, chiudendo la distanza con tre falcate pesanti. Il suo pugno destro arrivò in una traiettoria prevedibile, un diretto al viso da manuale, potente ma telegrafico. Lui si abbassò, sentì lo spostamento d'aria sopra la testa, e mentre il corpo di Sigma ruotava per compensare lo slancio, colpì con un calcio basso alla tibia.

Connessione. Sigma barcollò ma non cadde, assorbì l'impatto e rispose con un gomito circolare. Troppo lento. Lui arretrò di un passo, il gomito sfiorò l'aria a centimetri dal suo mento, e contrattaccò con una combinazione rapida: due jab al plesso solare, un gancio al fegato, un montante alla mascella.

Sigma incassò i primi due colpi, il terzo lo fece ondeggiare. Ma non cadde. Non cadeva mai facilmente. Gli steroidi gli davano una resistenza anormale, una capacità di assorbire danni che sfidava la logica. Era come colpire un muro di carne.

Si scambiarono colpi in rapida successione. Sigma attaccava con la brutalità meccanica che gli era stata inculcata, ogni movimento efficiente ma privo di creatività. Lui invece si muoveva come acqua, evitava quando poteva, deviava quando doveva, contrattaccava negli spazi che si aprivano tra un'azione e l'altra. La sua genetica perfetta gli dava quella velocità, quella coordinazione sovrumana che faceva sembrare ogni movimento un passo di danza coreografata.

Ma c'era qualcosa che lo frenava. Qualcosa dentro di lui che si rifiutava di andare oltre, di finire quello che doveva finire. Vedeva le aperture—la tempia esposta quando Sigma girava la testa troppo velocemente, la trachea vulnerabile quando estendeva troppo il collo durante un attacco, il ginocchio non protetto quando spostava il peso in avanti. Colpi che avrebbero potuto terminare il combattimento in secondi. Colpi che avrebbero potuto uccidere.

Non farlo. Non dargli questa soddisfazione. Non diventare il mostro che vogliono.

Esitò. Mezzo secondo. Meno.

Bastò.

Il pugno di Sigma lo colpì alla tempia, un colpo devastante che fece esplodere stelle bianche nel suo campo visivo. Il mondo si inclinò. Si sentì cadere, sentì il ginocchio di Sigma affondare nel suo stomaco, sentì l'aria abbandonare i polmoni in un'esalazione strozzata. Il pavimento freddo contro la schiena. Il peso di Sigma sul petto. Le mani enormi che si chiudevano intorno al suo collo.

Non per uccidere. Mai per uccidere. Non era questo lo scopo. Solo per sottomettere. Per dimostrare dominanza. Per ricordargli che la perfezione genetica non significava nulla senza la volontà di usarla completamente.

Il cicalino suonò. Fine del match.

Sigma si alzò immediatamente, tornò alla posizione di riposo, espressione immutata. Una macchina che aveva completato la sua funzione.

Lui rimase lì per un momento, fissando le luci al neon sopra di lui, sentendo il dolore sordo diffondersi dalle costole, dalla mascella, dalla nuca. Il sapore del sangue in bocca. Familiare. Costante.

– Prestazione inadeguata – la voce di Volkov, piatta, clinica. – Arma 0 mostra persistente esitazione nei momenti decisivi. Raccomando sessione di condizionamento psicologico, protocollo Delta-7 –

Condizionamento. Che parola elegante per descrivere ore in una stanza buia con elettrodi attaccati al corpo, scariche elettriche a intervalli casuali, privazione sensoriale alternata a sovrastimolazione, voce registrata che ripeteva le stesse frasi all'infinito: Tu non sei una persona. Tu sei uno strumento. Gli strumenti non scelgono. Gli strumenti obbediscono.

Gli aiutanti—due uomini in divisa bianca, maschere chirurgiche, guanti sterili—entrarono nella sala e lo afferrarono per le braccia, lo trascinarono su. Le sue gambe funzionavano, poteva camminare, ma loro non si fidavano mai. Protocollo standard. Sempre tre metri di distanza, sempre presa sicura, sempre pronti a iniettare sedativi se necessario.

Il corridoio verso la sua cella era lungo, sterile, infinito. Pareti bianche. Pavimento bianco. Luci bianche che non si abbassavano mai. Kravchenko camminava dietro di lui, passi pesanti, ritmici, minacciosi.

– Quattordici anni e ancora ti comporti come bambino – disse Kravchenko, voce bassa e gutturale. – In campo reale, questa esitazione ti ucciderebbe. E prima ti ucciderebbe qualcun altro –

Non rispose. Non c'era niente da dire che non avrebbe peggiorato le cose.

– Sigma ha due punti di QI in meno di una patata. Eppure vince perché ha capito cosa tu rifiuti di capire: non sei speciale. Non sei diverso. Sei strumento. Prima lo accetti, prima la tua vita diventa più facile –

Vita. Che parola ridicola per descrivere questa esistenza.

Lo spinsero nella cella. La porta si sigillò con un sibilo pneumatico, serratura elettronica che scattò, quindici centimetri di acciaio tra lui e il corridoio. Scanner biometrico che lampeggiò verde. Ingabbiato.

Si sedette sulla branda, catalogò i danni. Niente di rotto. Una commozione cerebrale lieve, che sarebbe passata in poche ore. Lividi alle costole, che sarebbero sbiaditi in un paio di giorni. Labbro spaccato, già coagulato. Il suo corpo perfetto che riparava, guariva, si preparava per la prossima sessione.

Tredici anni. Questa era stata la sua intera esistenza consapevole. Non ricordava nulla di prima. A volte, di notte, quando le luci finalmente si abbassavano per sei ore di sonno regolamentare, cercava di ricordare. Cercava frammenti—un volto, una voce, un profumo, qualsiasi cosa che suggerisse che un tempo era stato altro, che un tempo aveva avuto genitori, una casa, un nome che non fosse un numero e una lettera.

Ma non c'era niente. Solo il bianco dei corridoi e il sapore del sangue.

Pensava spesso a Sigma. A come i suoi occhi si erano svuotati progressivamente negli anni. Pensava agli altri progetti—ce n'erano almeno altri venti nella struttura, distribuiti in livelli diversi, ognuno addestrato per qualcosa di specifico. Armi bianche. Esplosivi. Infiltrazione. Interrogatorio. Assassinio a distanza.

Tutti strumenti.

Tutti rotti un pezzetto alla volta.

Quanto tempo prima che anche i suoi occhi diventassero così? Vuoti. Spenti. Obbedienti.

L'orgoglio dentro di lui—quel residuo di qualcosa che non riuscivano a cancellare completamente—si ribellava all'idea. No. Non diventerò come loro. Non mi spezzerete. Ma ogni giorno era più difficile mantenere quella promessa. Ogni sessione di condizionamento erodeva un altro pezzetto. Ogni combattimento in cui doveva scegliere tra vincere diventando quello che volevano o perdere e soffrire le conseguenze consumava un altro frammento di volontà.

La libertà. Cos'era? Un concetto astratto letto nei pochi libri che gli permettevano durante il tempo ricreativo—sempre pre-approvati, sempre censurati, sempre scelti per scopo educativo. Filosofia greca. Trattati militari. Manuali tecnici. Niente che potesse "contaminare" con idee pericolose.

Ma lui leggeva tra le righe. Vedeva nelle parole di Platone, di Musashi, persino nei manuali di strategia militare, l'eco di qualcosa che gli era stato negato. La capacità di scegliere. Di determinare il proprio percorso. Di vivere e morire alle proprie condizioni.

Tutti siamo uguali e in potenza capaci di agire per noi stessi.

Bugia. Bella bugia che il mondo raccontava a se stesso mentre costruiva prigioni come questa, mentre trasformava bambini in armi, mentre decideva che alcuni esseri umani potevano possedere altri esseri umani se solo cambiavi le parole, se chiamavi proprietà "investimento" e schiavitù "protocollo di addestramento".

Un'ora passò. La porta si aprì.

– Su. Sessione di condizionamento – Kravchenko, sempre lui, con due guardie armate dietro. Protocollo standard per i trasferimenti.

Si alzò, seguì docilmente. Che senso aveva resistere? Dove poteva andare? La Struttura era un labirinto progettato per contenere. Anche se fosse riuscito a uscire dalla sua cella, c'erano altri venti livelli di sicurezza, porte blindate, checkp checkpoint biometrici, guardie armate, sistemi di gas nervino integrati nelle condutture d'aria.

E poi cosa? Il mondo esterno, quel posto mitico di cui sentiva parlare ma che non aveva mai visto, cos'era per uno come lui? Un'arma senza padrone? Un mostro geneticamente perfetto che non sapeva fare altro che combattere?

Il laboratorio di condizionamento era al Livello 6, dietro tre porte di sicurezza e due scanner retinici. Una stanza nuda, pareti foderate di materiale fonoassorbente, una sedia al centro—più un dispositivo di contenimento che una sedia vera, con cinghie per polsi, caviglie, petto, fronte.

– Siediti – Kravchenko indicò la sedia.

Si sedette. Le cinghie si chiusero automaticamente, serrate da meccanismi pneumatici, pressione calcolata per immobilizzare senza tagliare la circolazione. Gli elettrodi arrivarono dopo, applicati da mani cliniche e impersonali. Tempie. Collo. Petto. Avambracci.

Dottor Zhang entrò, tablet in mano, espressione annoiata come sempre.

– Protocollo Delta-7. Durata: novanta minuti. Obiettivo: riduzione risposta empatica, incremento efficienza decisionale in situazioni di combattimento –

Parole eleganti. Significavano: ti faremo soffrire finché non impari a obbedire.

Le luci si spensero. Il buio completo lo avvolse, assoluto, totale. Poi iniziò.

Scariche elettriche. Non abbastanza per causare danni, solo abbastanza per causare dolore. Casuali. Imprevedibili. Una alle tempie. Due al petto. Una al collo. Tre agli avambracci. Il suo corpo si contraeva, muscoli che si contorcevano contro le cinghie, denti serrati per non urlare.

Non urlare. Non dargli questa soddisfazione.

La voce registrata iniziò, volume assordante, parole che si sovrapponevano in un caos studiato per disintegrare il pensiero razionale:

Tu non sei una persona. Tu sei uno strumento. Gli strumenti non scelgono. Gli strumenti obbediscono. L'esitazione è debolezza. La debolezza è fallimento. Il fallimento è dolore. Obbedienza è pace. Obbedienza è scopo. Tu esisti per servire—

Continuò. Continuò. E continuò.

Novanta minuti dopo—o forse di più, il tempo perdeva significato nel buio e nel dolore—le luci si riaccesero. Le cinghie si aprirono. Le sue mani tremavano incontrollabilmente, effetto residuo delle scariche, il suo corpo perfetto che cercava di riparare danni microscopici ai nervi.

– Sufficiente per oggi – disse Zhang, prendendo appunti sul tablet. – Risposta entro parametri attesi. Raccomando ripetizione tra quarantotto ore –

Lo riportarono alla cella. Kravchenko non disse nulla questa volta. Non ce n'era bisogno. Il messaggio era stato consegnato.

Si accasciò sulla branda, fissò il soffitto, aspettò che il tremito passasse. Il suo corpo lo avrebbe riparato. Sempre lo faceva. Perfetta capacità di recupero. Perfetta resistenza. Perfetta gabbia.

Fuori, oltre le pareti di cemento, forse c'era un cielo. Forse c'erano stelle. Forse c'era un mondo dove le persone vivevano e morivano alle proprie condizioni, dove la libertà non era solo una parola nei libri ma qualcosa di reale, tangibile.

O forse era solo un'altra bugia. Un'altra illusione.

Non importava. Lui non l'avrebbe mai scoperto.

I giorni si susseguivano identici. Sveglia 05:00. Colazione—calorie calcolate al grammo, nutrienti ottimizzati per performance massima, sapore irrilevante. Addestramento fisico 06:00-09:00: corsa, sollevamento pesi, esercizi di agilità, tutto monitorato e quantificato. Pausa. Addestramento marziale 10:00-13:00: tecniche di combattimento corpo a corpo, armi bianche, disarmo, combattimento contro multipli avversari. Pranzo. Addestramento tattico 14:00-16:00: simulazioni, pianificazione missioni, analisi di scenari. Studio 16:00-19:00: lingue, tattica, anatomia umana, chimica, fisica. Cena. Tempo libero 19:00-21:00—il termine era ironico, significava solo che poteva scegliere se leggere i libri pre-approvati o fissare il muro. Luci abbassate 21:00. Sveglia 05:00.

Ripeti.

Ripeti.

Ripeti.

Sempre uguale. Sempre preciso. Sempre controllato.

Mercoledì era combattimento contro Sigma. Vinse Sigma.

Venerdì era combattimento contro Sigma. Vinse Sigma.

Sabato era combattimento contro Sigma. Perse di nuovo, perché quando aveva Sigma a terra, quando poteva sferrare il colpo alla gola che lo avrebbe reso incosciente, esitò. Solo un attimo. Solo un respiro. Ma bastò.

– Sessione di condizionamento, protocollo Delta-7 –

Il ciclo continuava.

C'erano altri progetti nella Struttura. Li vedeva a volte, durante i trasferimenti, fugaci glimpse attraverso porte che si aprivano e si chiudevano. Progetto Omega, una ragazza della sua età, addestrata per infiltrazione e seduzione. Progetto Alpha, un uomo sui venti, specializzato in esplosivi. Progetto Theta, bambini gemelli, non più di dieci anni, che venivano addestrati per lavoro di squadra sincronizzato.

Non parlavano mai. Non era permesso. Ogni progetto era isolato, compartimentalizzato, impedito di creare legami che potessero interferire con la funzionalità.

Ma a volte i loro occhi si incontravano. E in quegli sguardi vedeva la stessa cosa che sentiva dentro di sé. La stessa disperazione silenziosa. La stessa domanda senza risposta: quanto ancora?

Una sera—martedì, se teneva il conto giusto, ma forse sbagliava, i giorni si confondevano—era nella sua cella quando sentì qualcosa di diverso. Un suono. Molto debole. Molto distante. Ma diverso dal ronzio costante dei sistemi di ventilazione e dalle luci fluorescenti.

Voci. Non quelle degli istruttori o delle guardie. Altre. Concitate. Preoccupate.

Si alzò dalla branda, premette l'orecchio contro la porta. L'acciaio era troppo spesso, ma la sua acuità sensoriale perfetta catturava le vibrazioni, i pattern sonori, le frequenze.

Qualcosa stava succedendo.

Passi. Corsa. Molte persone. Le guardie? No, troppo caotici. Le guardie si muovevano con disciplina militare, formazioni precise. Questi erano—

L'allarme esplose nella notte.

Non l'allarme dell'addestramento. Non quello dei pasti. Un altro. Rosso. Acuto. Disperato. Le luci della cella passarono dal bianco sterile al rosso intermittente, trasformando lo spazio in un incubo stroboscopico.

– CODICE NERO. RIPETO, CODICE NERO. BREACH DI SICUREZZA LIVELLO UNO. TUTTO IL PERSONALE EVACUARE VERSO— –

La voce dell'interfono venne tagliata. Statica. Silenzio.

Poi esplosioni. Distanti ma inconfondibili. Il pavimento tremò. La polvere cadde dal soffitto.

Si premette contro l'angolo della cella, lontano dalla porta, muscoli tesi, respiro controllato. Addestramento. Di fronte a situazione sconosciuta, valuta prima di agire. Aspetta informazioni. Non esporti.

Ma le informazioni non arrivavano. Solo più esplosioni. Più grida. E ora, distintamente, il crepitio di armi da fuoco. Automatiche. Brevi raffiche controllate. Spari singoli. Qualcuno stava combattendo. Qualcuno stava morendo.

Minuti passarono. Quanti? Cinque? Dieci? Impossibile dirlo con l'adrenalina che pompava, con il cuore che batteva contro le costole, con ogni senso amplificato al massimo.

Un'altra esplosione. Più vicina. La porta della cella vibrò. La serratura elettronica emise un bip arrabbiato, poi si spense. Le luci rosse tremolarono. Il sistema di backup entrò in funzione, ma qualcosa non andava, le luci continuavano a intermittere in modo irregolare.

Silenzio improvviso. Più terrificante del caos.

Passi nel corridoio. Lenti. Metodici. Pesanti. Non erano quelli di Kravchenko. Non erano quelli delle guardie. Erano—

La porta esplose verso l'interno, strappata dai cardini con violenza bruta. La massa di acciaio sbatté contro il pavimento con un boato metallico. Polvere e fumo invasero la cella.

Tre uomini entrarono. Vestiti completamente di nero, armature tattiche, caschi con visori oscurati, fucili d'assalto puntati. Sul loro petto, ricamato in grigio scuro, un simbolo che lui non riconosceva: un serpente che divorava la propria coda.

Non erano della Struttura.

– Progetto identificato. Livello 4, cella 14 – disse uno di loro, voce distorta dal modulatore del casco. Parlava inglese con accento slavo. – Protocollo Uraeus. Eliminazione immediata –

Il fucile si alzò.

No.

Non così.

Non dopo tutto.

Non da loro.

Il suo corpo si mosse prima che il pensiero si formasse completamente. Addestramento. Tredici anni di condizionamento che finalmente trovava scopo. Scattò in avanti, troppo veloce, la perfezione genetica che esplodeva in velocità pura. Il primo uomo non ebbe tempo di premere il grilletto. La sua mano colpì il polso armato, deviò la canna verso l'alto. Il fucile sparò, proiettili che perforarono il soffitto. Il suo gomito trovò il collo esposto sotto il casco, punto preciso dove la carotide pulsava. Connessione. L'uomo crollò.

Il secondo e il terzo reagirono, addestramento professionale, coordinazione da unità speciale. Fuoco incrociato, angoli calcolati per evitare il fuoco amico.

Ma lui era già in movimento. Rotolò sotto la prima raffica, si alzò nel dead space tra i due tiratori, troppo vicino per permettere un tiro sicuro. Il calcio del fucile colpì il secondo uomo alla tempia attraverso il visore, vetro che si frantumò, casco che si deformò. Sangue.

Il terzo abbandonò il fucile, estrasse un coltello da combattimento. Movimento fluido, professionalmente eseguito. La lama saettò verso le costole, angolo ascendente, cercando il cuore.

Lo afferrò per il polso a mezz'aria, usò lo slancio dell'attaccante contro di lui, ruotò, portò il gomito contro la mascella. Il casco smorzò parte dell'impatto ma non tutto. L'uomo barcollò. Lui non gli diede tempo. Calcio al ginocchio. Suono di qualcosa che si spezzava. Urlo soffocato. Il coltello cadde. Lo raccolse. Lo affondò nel gap tra casco e armatura, dove il tessuto flessibile proteggeva il collo.

Resistenza. Affondamento. Calore.

L'uomo si accasciò.

Lui rimase lì, respiro pesante, coltello in mano, circondato da tre corpi. Due morti. Uno forse morente. Il suo corpo perfetto che aveva fatto esattamente quello per cui era stato addestrato.

Uccidere.

Nausea. Non fisica. Più profonda. L'orgoglio dentro di lui che si contorceva di fronte alla realtà di cosa aveva appena fatto, di cosa era diventato.

Tu non sei una persona. Tu sei uno strumento.

Forse avevano ragione.

Voci nel corridoio. Altre. Più lontane.

– Settore ovest pulito –

– Quattro progetti eliminati al Livello 3 –

– Ancora resistenza al Livello 6 –

Capì. Non erano venuti a salvare. Non erano venuti a liberare. Erano venuti a cancellare. Organizzazione rivale. Operazione di eliminazione competizione. La Struttura era solo un'azienda, e questa era una scalata ostile espressa in piombo e esplosivo.

I progetti erano assets. Assets che non potevano essere permessi a cadere in mani nemiche.

Quindi venivano distrutti.

Uscì dalla cella, coltello stretto in pugno, adrenalina che ancora pompava. Il corridoio era un'apocalisse in miniatura. Corpi ovunque—guardie, scienziati, tecnici. Alcuni morti da colpi di arma da fuoco. Altri da esplosioni. Il pavimento era viscido. L'aria sapeva di cordite e altro.

Passò davanti alla cella di Sigma. La porta era stata forzata. All'interno, il corpo massiccio di Sigma riverso a terra, tre fori nel petto raggruppati in un'area grande come un pugno. Tiro da professionista. Sigma non aveva avuto una chance.

I suoi occhi erano aperti. Ancora vuoti. Ancora spenti. Ma almeno ora era libero. In un modo orribile, brutale, definitivo.

Continuò. Livello 3. Più corpi. Progetto Omega, la ragazza, accasciata contro un muro, metà della testa mancante. Progetto Alpha, riconoscibile solo dalla taglia e dal tatuaggio identificativo sul braccio. I gemelli, Theta, piccoli corpi ammucchiati insieme in una cella, forse si erano abbracciati prima della fine.

Tutti morti. Tutti cancellati.

Un'esplosione più forte delle altre. Il pavimento si inclinò. Strutturale? No, troppo grande. Stavano demolendo l'intero complesso.

Salì verso il Livello 2. Forse c'era un'uscita. Forse c'era una possibilità. Forse—

Li vide. Un gruppo di sei, riuniti vicino a quello che doveva essere un'uscita d'emergenza. Stessa armatura nera. Stesso simbolo. Stavano posizionando cariche esplosive sulla porta blindata.

Lo videro nello stesso istante.

– Progetto fuggito. Ingaggiare –

Sei. Lui era solo uno. E aveva solo un coltello.

Ma era geneticamente perfetto. E per la prima volta in tredici anni, stava combattendo per qualcosa che voleva. Non per obbedienza. Non per evitare punizione.

Per vivere.

Scattò. Il primo non ebbe tempo di alzare l'arma. Il coltello trovò il gap nell'armatura sotto l'ascella. Dentro. Fuori. Sangue che schizzò. Il secondo sparò, raffica controllata, ma lui era già rotolato via, usò il primo corpo come scudo. Proiettili che perforavano carne già morta. Si lanciò verso il secondo, basso, troppo veloce. Calcio alle ginocchia. Suono di tendini che si strappavano. L'uomo crollò. Il coltello trovò il collo.

Il terzo e il quarto attaccarono insieme, coordinati. Lame da combattimento, abbandono delle armi da fuoco per evitare colpire i compagni. Addestramento da élite militare. Mortale. Efficiente.

Ma non perfetto.

Lui vedeva i movimenti prima che si completassero, leggeva il linguaggio del corpo, l'inclinazione delle spalle, lo spostamento del peso. Schivò la prima lama per millimetri, deviò la seconda con l'avambraccio, accettò il taglio superficiale per creare un'apertura. Il suo coltello affondò nel giunto tra casco e petto. Il quarto uomo crollò.

Il terzo lo colpì alla schiena, lama che perforò i muscoli, mancò la spina per centimetri. Dolore. Accecante. Esplosivo.

Si girò, ignorò il dolore, il suo corpo perfetto che già lavorava per contenere il danno, per mantenere la funzionalità. Afferrò il polso armato, tirò l'uomo verso di sé, testata al naso. Crunch. Sangue che spruzzò dal casco fratturato. Il suo coltello entrò e uscì tre volte in rapida successione. Petto. Fegato. Reni.

Il quinto e sesto aprirono il fuoco. Non c'era più scelta. Non c'erano più compagni da non colpire. Solo lui, esposto, in mezzo al corridoio.

Proiettili. Decine. Più.

I primi lo mancarono. I suoi riflessi perfetti, velocità sovrumana, movimento imprevedibile. Ma non poteva schivare tutto. Nessuno poteva.

Il primo proiettile lo colpì alla spalla sinistra. Impatto. Rotazione. Dolore ritardato dall'adrenalina.

Il secondo alla coscia destra. Osso che si frantumò.

Il terzo all'addome. Penetrazione profonda. Organi interni.

Cadde. Il coltello scivolò dalla mano intorpidita.

Continuarono a sparare. Metodici. Professionali. Assicurandosi del risultato.

Altri colpi. Petto. Stomaco. Bacino.

Il suo corpo perfetto provava a guarire, ma c'erano troppi danni. Troppo estesi. Troppo velocemente inflitti. Anche la perfezione aveva limiti.

Si accasciò sul pavimento freddo, sangue che si allargava sotto di lui, caldo, appiccicoso. Guardò il soffitto—non più bianco sterile ma oscurato dal fumo e dalla polvere. Le luci rosse continuavano a intermittere, ipnotiche, surreali.

I due uomini si avvicinarono, armi puntate, verificando la kill.

– Progetto terminato – disse uno.

– Procedi con demolizione – disse l'altro.

I loro passi si allontanarono. Lui rimase lì, solo, morente.

Tredici anni. Era stata tutta la sua vita. E adesso finiva qui, sul pavimento di cemento, in un corridoio bianco, circondato da morte.

Nessuna libertà. Nessuna scelta. Nessuna vita alle sue condizioni.

Solo uno strumento rotto, scartato quando non serviva più.

Il dolore iniziò a sfumare. Non per guarigione. Per altro. Il corpo perfetto che si arrendeva, che accettava l'inevitabile. Respirare diventava più difficile. I polmoni si riempivano di qualcosa che non era aria.

Pensò ai suoi genitori, quelle figure mitiche che non aveva mai conosciuto. Si erano presi cura di lui per un anno. Un anno in cui era stato solo un bambino, non un'arma. Si domandò come erano. Se avevano riso. Se lo avevano amato.

Pensò a Sigma, agli occhi vuoti. Almeno ora non erano più soli.

Pensò al cielo che non aveva mai visto. Alle stelle che forse esistevano. Al mondo che forse era reale.

La sua vista si sfocò. Le luci rosse diventarono indistinte, nebbiose.

Ogni essere vivente ha il diritto di vivere e morire alle proprie condizioni.

Bugia.

Bella, crudele bugia.

Il suo respiro si fece più superficiale. Più lento.

Più...

Lento...

Smise.

Le luci continuarono a lampeggiare sopra un corpo immobile. Un progetto terminato. Un'arma distrutta.

Arma 0 era morto a quattordici anni, senza nome vero, senza scelta, senza libertà.

Proprio come era vissuto.

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